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Immagine del redattoreSimone Franceschini

Elementi per una Nuova Pratica Marziale: L'Equilibrio

Nei precedenti articoli abbiamo prima affrontato le motivazioni che conducono un praticante a sentire la necessità di espandere i confini della propria pratica oltre il semplice combattimento fine a sé stesso. In un secondo momento abbiamo elevato questa necessità a vera e propria finalità, al punto di gettare le basi teoriche di quello che mira ad essere un sistema di rinnovamento delle arti marziali. Ora non resta che porre la nostra attenzione sull'aspetto pratico,  cercando di individuare l'allenamento  adatto al raggiungimento del nostro obiettivo.  L'estetica del movimento nel combattimento con un avversario totalmente ostile.

 

È assolutamente importante però avere contezza della comprensione della natura della cedevolezza di cui abbiamo ampiamente trattato, perché sarà essa a modellare tutti i nostri esercizi pratici. Possiamo a ragione dire che la nostra pratica consisterà in nient'altro che fare del nostro corpo lo strumento più adeguato alla manifestazione della cedevolezza. Vediamo ora di fare maggiore chiarezza su questo importante punto.

 

Se ragioniamo senza pregiudizi su quello che in definitiva fa qualsiasi praticante, dovremo ammettere che sopra ogni cosa egli tenta di rendere visibile quello che nella sua mente ha già concepito e visualizzato. Possiamo dire che l'artista marziale immagina la sequenza dei movimenti e tutti i suoi sforzi rappresentano il tentativo di realizzare questa immaginazione, di portarla alla realtà. Nel pensare egli trova la sua fonte di creatività, nel sentire egli si fa strumento soggettivo visibile di una concezione oggettiva ideale e nel volere mette in moto le forze per compiere la sua opera di trasformazione.

 

Se questi tre aspetti non sono in equilibrio, la cedevolezza non si manifesterà. Al contrario essa compare quando il praticante, attraverso la disciplina e l'allenamento, avrà fatto della sua anima e del suo corpo il perfetto veicolo per la manifestazione del suo atto immaginativo; ecco allora che la cedevolezza si manifesterà perché essa è proprio questo: il risultato di un'opera compiuta, di un superamento, di una trasformazione avvenuta con fatica da parte del praticante che ora può finalmente sentirsi libero di esteriorizzare attraverso il movimento tutta la sequenza che fino ad ora aveva solo potuto immaginare, superando armoniosamente tutti gli ostacoli, siano essi interiori (emozioni avverse) che esteriori (i movimenti dell'avversario).

 

Per raggiungere questa libertà creativa dovrà dunque plasmare sé stesso. Dovrà allenarsi con questa finalità. 


Alla luce di quanto esposto risulta chiaro come il più grande ostacolo alla nostra realizzazione artistico-marziale risieda nella rigidità. La rigidità e il sintomo dell'errore, il campanello d'allarme che qualcosa nella nostra pratica non sta andando nel modo giusto.

 

Dobbiamo concepire la rigidità per quello che è, ovvero sinonimo di morte, nel nostro caso morte del movimento. Dobbiamo combatterla con tutti noi stessi, anche quando, seppur rigidi, qualcosa del nostro bagaglio tecnico funziona ugualmente. Meglio fermarsi, riprovare, addirittura perdere momentaneamente, piuttosto che abdicare al raggiungimento dell'armonia.

 

In definitiva, nessun traguardo figlio della rigidità dovrà essere accettato, neanche il più piccolo. Bisogna essere assolutamente onesti.

 

In caso contrario, se questa onestà dovesse mancare, il praticante potrà diventare un ottimo lottatore, ma l'arte gli sarà sempre preclusa.

 

Chiediamoci dunque, prima di cominciare il nostro allenamento, come possiamo diventare un perfetto veicolo per le nostre strategie di lotta? Come possiamo fare del nostro corpo uno strumento adatto alla grazia e alla bellezza, superando la rigidità?

 

Lo faremo indagando le cause che portano il nostro corpo ad irrigidirsi. Esse possono essere di natura interiore o esteriore. In definitiva, il nostro corpo durante il combattimento si paralizza, rendendosi così un ostacolo alla cedevolezza, per due motivi: quando perdiamo il controllo sul nostro mondo interiore oppure quando il nostro corpo, attraverso il sistema muscolare, compensa posizioni sfavorevoli o di squilibrio e, in questo caso, le cause sono di natura esteriore.

 

Dobbiamo immaginare la cedevolezza, ovvero la grazia, l'estetica dei nostri movimenti, come intrappolata fra due poli. Dall'alto la trattiene il nostro mondo interiore quando da noi non dominato a dovere. Esso è fatto di pensieri non precisi ed emozioni non controllate che in questo stato sempre si riflettono come rigidità fisica, come impedimento ad avanzare nei movimenti. Allo stesso tempo essa è intrappolata dal basso, dall'utilizzo scorretto del nostro corpo ovvero dalla mancanza di equilibrio e relativa assenza di sensibilità che, nuovamente, si ripropone alla vista come rigidità fisica, questa volta però a causa di errate impostazione di meccanica del corpo.



Solo curando questi aspetti nella loro totalità possiamo giungere alla meta. Nessun aspetto può essere lasciato indietro.

 

Cominceremo a trattare della pratica partendo dalla base dell'allenamento esteriore, iniziando a studiare il senso dell'equilibrio nella sua natura e come poterlo migliorare ai fini del combattimento. Questo perché è nostra intenzione portare alla luce tutto ciò che avviene prima e, a ragion del vero, fa funzionare quello che la maggior parte dei praticanti definisce "studio delle tecniche": il substrato sommerso che le rende attuabili, ma che sempre rimane nascosto.

 

Iniziamo subito dicendo che il senso dell'equilibrio, e qui il genio della parola ci viene in aiuto, è da considerarsi un vero e proprio senso, proprio come gli altri cinque ma più nascosto. È quel senso che ci dà contezza del nostro corpo nello spazio.

 

Esso può essere allenato o, per meglio dire, acuito proprio come può essere acuito il senso dell'udito per il musicista. Gli esercizi di acrobatica della ginnastica artistica o gli esercizi della danza classica sono ciò che affina il nostro equilibrio, ancora meglio se coltivati da bambini, ma questo incremento, seppur importante, non basta. Certo, più sarà sviluppato il senso dell'equilibrio nel praticante, maggiore sarà la sua abilità nel combattimento, ma questo non può prescindere dallo studio delle posizioni che ora metteremo in luce.

 

Messa da parte la pratica individuale, concentriamoci su quella generale, sui principi oggettivi validi per tutti, indipendentemente dalle qualità personali o dal talento. Vediamo qui il modo più corretto per muoversi e posizionarsi che un lottatore dovrebbe utilizzare per mantenere il proprio equilibrio senza che la rigidità si palesi, disturbandolo. 


Sono i principi della postura e della progressione a triangolo, il primo mostrato nelle sue quattro posizioni fondamentali o posture d'attesa.


Posture che, se riprodotte, permettono al praticante di avere una base di approccio solida in quanto portatrici autonome di stabilità, fondamentali per avere la possibilità di elaborare strategie, sentire e utilizzare a proprio favore gli spostamenti dell'avversario senza esserne preda,  attuare progressioni su nuove posizioni o attacchi di qualsiasi natura. Se volessimo fare un parallelo chiarificatore potremmo dire che il loro raggiungimento è vantaggioso come la conquista di una collina da parte di un ipotetico esercito. Avere la possibilità di vedere gli spostamenti di un avversario senza esserne coinvolti direttamente deve diventare una prerogativa assoluta e base di sviluppo per una corretta pratica.

 

Questa base di partenza deve poi crescere, deve potersi espandere e diventare abilità di mantenere l'equilibrio anche e soprattuto durante tutti gli spostamenti che decidiamo di fare sul tatami, non solo nelle posture. Questo andrà fatto attraverso lo studio e la pratica della progressione a triangolo, qui mostrata nella sua forma più pura, ovvero con due punti di contatto (piedi sul tatami) e senza l'ingaggio con il corpo dell'avversario. In questo modo gli spostamenti attorno all'avversario saranno sempre veloci e stabili, imprescindibili per passare direttamente o per ingaggiare uno specifico passaggio.

Abbiamo inserito questo esempio perché e il più semplice da osservare e, sotto molti aspetti, quello fondamentale, il primo che un principiante dovrebbe affrontare.

La figura del triangolo rimane in realtà presente in tutti i passaggi di guardia corretti, ma tende ad occultarsi non appena si entra in contatto con l'avversario o si imposta una presa, traendo in inganno il praticante poco attento, che subito porrà la sua attenzione sui dettagli piuttosto che sulla posizione assunta, cadendo nella rigidità.

 

Avere tre punti equidistanti fra loro è sinonimo di massima stabilità. Sempre. Il nostro corpo dovra imparare a muoversi nello spazio riproducendo quanto più possibilmente la forma del triangolo equilatero attraverso lo spostamento di ogni parte del corpo, dalla testa ai piedi, in base, ovviamente, alla direzione che abbiamo scelto. Questo farà sì che l'arto che abbiamo deciso di muovere potrà spostarsi autonomamente e con fluidità andando e tornando verso il corpo a piacere, cosa fondamentale per la fluidità complessiva dei movimenti. Si noterà subito infatti un miglioramento estetico, e dunque funzionale, importante. Grazie a questa progressione infatti il punto di appoggio in spostamento (qualunque esso sia) non diviene mai punto univoco di scarico del peso, ma provvisorio appoggio per la ridistribuzione omogenea del medesimo peso in un punto diverso dello spazio, eliminando così il problema comune della frammentazione del movimento.

 

Andrà inoltre appreso l'utilizzo dei vertici come perno per i cambi di direzione repentini.

 

La solidità della posizione del triangolo, unita alla velocità nello spostamento. fa di questo modo di muoversi la base dell'allenamento fisico di un lottatore e il più grande antidoto alla comparsa della rigidità perché evita costantemente l'intromissione del sistema muscolare nel mantenimento dell'equilibro.

 

Minore sarà lo sforzo fisico, maggiore sarà la base d'equilibrio che saremo riusciti a sviluppare

 

È di fondamentale importanza per il praticante coltivare da subito questo modo di muoversi, ancora prima dell'apprendimento tecnico di base, perché questa capacità acquisita andrà a costituire le fondamenta profonde di tutta la sua pratica: un lottatore che non ha dimestichezza con le posizioni di equilibrio a triangolo e gli spostamenti che ne derivano non avrà mai una base adeguata dalla quale partire, sia  per approfondire lo studio tecnico, sia soprattuto per preparare adeguatamente il terreno a quella che sarà la facoltà principale che un lottatore deve amplificare, ovvero la sensibilità. Senza essere riusciti a sviluppare un equilibrio costante nello spazio, viene da sé intuire come sia impossibile accedere in un secondo momento all'allenamento della sensibilità. Nessuno infatti può rimanere concentrato nel percepire e direzionare la spinta di un corpo esterno sul proprio se nel medesimo momento è intento a mantenersi in equilibrio per evitare di cadere. Senza porre attenzione a questo lavoro, il praticante sarà in qualche modo condannato alla perenne ripetizione di una minima porzione di movimenti perché da lui considerati sicuri, precludendo così la possibilità di accedere al cuore della pratica. 

 

Quest'ultimo modo di praticare è di certo il più comune purtroppo benché profondamente errato soprattutto per i principianti, perché muove da uno stadio (l'esecuzione di una tecnica) in relata già avanzato, causando nel tempo lacune profonde e, ancora più grave, allungando il periodo di apprendimento a dismisura a causa del corto circuito che si viene a creare ogni volta che si sposterà l'attenzione su una nuova tecnica, mettendo così il principiante punto e a capo per anni.

 

Il miglioramento non avviene aggiungendo di volta in volta nuove tecniche come si aggiunge nella busta un frutto dopo l'altro al supermercato, ma preparando a dovere quelle facoltà che sono la causa del funzionamento di qualsiasi tecnica, la sorgente dalla quale attingono tutti i movimenti possibili.

 

Non abbiamo preso in esame nel nostro studio la preparazione atletica, sia essa incentrata sul potenziamento fisico muscolare o sulla resistenza aerobica perché crediamo che ogni potenziamento fisico sia da evitare fino a quando il praticante non sia divenuto esperto conoscitore delle posture e dei movimenti di base della progressione a triangolo. Introdurre elementi di potenziamento prima che si abbia un vero controllo sul proprio corpo è deleterio per la pratica, perché rischia di cronicizzare errori posturali rallentando il miglioramento.

 

Diverso è invece per praticanti esperti, già padroni di questi concetti: in tal caso la preparazione atletica è fattibile, se non quasi obbligatoria, per chi decide di competere in gara dal semi-professionismo al professionismo vero e proprio, ma deve essere sempre inquadrata nella sua reale utilità, ovvero l'allenamento dell'espressione finale di un processo molto più profondo e infinitamente perfezionabile.

 

Qui abbiamo voluto porre l'attenzione alla prima parte di un processo esteriore invisibile che conduce ad un'azione efficace. Nei prossimi articoli saliremo di livello studiando la restante parte, ovvero la facoltà della sensibilità, mettendone in mostra le profonde connessioni con tutto quello di cui abbiamo finora trattato.

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